Se n'è andato qualche giorno fa Gianfranco Civolani, noto a tutti per la sua attività di giornalista sportivo, ma assai meno conosciuto per quella di organizzatore ed autore teatrale, nonché di critico "indipendente" e acuto recensore. Del resto il Civ, da petroniano al 100%, era fatto così: non amava campare crediti o vantare meriti. Proprio come la sua Bologna, del resto, che nasconde i tesori più preziosi dietro mura e portoni austeri, e per sprezzo aristocratico, forse d'antico uso guerriero, concede gloria solo postuma ai suoi campioni. 

Trincerato dietro la burbanzosa baldanza di un cinismo di maniera, ma animato in realtà da un affettuoso umorismo sempre indulgente verso gli uomini e le loro miserie, Civolani non aveva perso con gli anni la voglia di osservare il mondo in modo divertito - senza che pur mai un sorriso tradisse la maschera impeccabile che aveva saputo costruire, quel personaggio che (lui consenziente!) gli aveva da tempo rubato  la scena.

Bizzarro destino, per uno che, come Civolani, le leggi della scena la conosceva intimamente, e certo non meno bene di quelle, altrettanto misteriose, del calcio; tanto da ricoprire la carica di direttore artistico della "Ribalta", il piccolo spazio di via d'Azeglio che esercitò per anni un ascendente formidabile sul milieu culturale bolognese ed italiano; quando le tavole del suo palco erano calcate da figure, allora emergenti, come Gigi Proietti e Ornella Vanoni, e la curiosità di un pubblico diverso da quello di oggi consentiva la proposta di repertori eccentrici e stimolanti. 

Ma le radici di questa passione, giovanile e mai rinnegata - tanto da essere rinverdita in tempi più recenti da una collaborazione con Giorgio Comaschi, che diede forma ad uno spettacolo incentrato sulle vicende dello scudetto calcistico del Bologna -, erano più profonde e differenti. Con altri uomini celebri del mondo culturale e teatrale bolognese, il Civ condivideva un background maturato negli ambienti del cabaret locale dei primi anni '60, post-brechtiano sul piano tematico (e già aperto alle forme del nonsense e del teatro dell'assurdo che domineranno il decennio successivo) ma ancora dipendente da stilemi estetici e formali mutuati dalla Berlino di Weimar; e, ugualmente, il gusto dell'osteria quale punto di aggregazione  (ma anche di elaborazione ed espressione artistica), e talvolta fucina autentica di talenti. Radici in fondo non molto dissimili da quelle di un altro grande alfiere della polimorfia intellettuale bolognese, Giorgio Celli, che all'attività accademica affiancò sino alla fine un'altrettanto feconda opera di autore teatrale. 

Certo, il Civ ai gatti preferiva il calcio (che Celli invece detestava, considerandolo - forse non del tutto erroneamente - un pericolosissimo oppio dei popoli), ma per molti aspetti le loro esistenze consonarono curiosamente; la concezione del teatro come avventura dello spirito, come sostanziale infedeltà al quotidiano, li accomunava. Oltre all'attività autoriale, poi, Civolani - fedelmente alla sua natura di gazzettiere - sviluppò una parallela opera di recensore, dimostrandosi critico avveduto, ma non per questo meno severo di quanto non fosse verso quel Bologna F.C. che ha amato per l'intera sua esistenza, pur senza mai lesinare critiche feroci, ironie taglienti e sarcasmi (come nel più puro stile petroniano).

Gianfranco Civolani è morto. Se n'è andato di domenica, memore forse di tempi lontani, quando solo nei giorni festivi si sacrificava al dio pallone, onorando con il rito collettivo la più laica (e sentita) delle italiche liturgie. E' morto e ci mancherà; lui personalmente, con quell'aria da vecchio druido brontolone a metà tra i fumetti di Asterix e le radici profondissime di Bologna. E lui, il Civ, come testimonianza di un impegno e di una fisionomia intellettuale capace di coniugare interessi diversi, pur perseguendoli con la medesima serietà.   

Piero Ferrarini