Addio a Flavio Bucci

Non so se possa esistere nulla di più malinconico della luce di un'alba d'inverno sul litorale romano, dove la memoria della Dodecapoli si sfalda nelle miserie della speculazione edilizia. Di certo, Flavio Bucci non avrebbe potuto scegliere migliore ambientazione per mettere in scena l'ultimo suo pezzo di bravura, quello che da molto tempo - da sempre -, con maniacale perizia e scrupolo degno d'un grande artista andava preparando.

Come i grandi scacchisti e i guitti sanno bene, ogni opera si compone di tre momenti, distinti eppure interdipendenti tra loro: l'apertura, lo sviluppo ed il finale. Si può essere players provetti in una qualsiasi delle tre fasi, ma solo i Maestri riescono a legarle tra loro fino a renderne impercettibili le giunzioni, abbattendo i confini interni e ridefinendo la grammatica stessa del gioco (o del Teatro, ma è la stessa cosa). Solo chi padroneggia i meccanismi profondi, avendone intimamente comprese od intuite le regole - che proprio per questo cessano di essere prescrittive, e divengono puramente accessorie -, restituisce Unità alla semplice somma delle parti.

Flavio Bucci, del quale, al pari di chiunque abbia incrociato la sua strada, ho avuto l'onore di conoscere ciò che lui ha consentito conoscessi di sé, stava alla scena come Bobby Fischer stava alla scacchiera: talenti naturali, assoluti, purissimi e, per così dire, allo stato brado.

Ma, del resto, è forse anche soltanto ipotizzabile un genio addomesticato?

Talenti, mette conto sottolinearlo, anche per sfatare lo stupido mito della sregolatezza creativa, oggi purtroppo di gran moda (e utile a gabellare come "artisti" nullità burocratiche o viziosi irrecuperabili), affinati da un vita di passione e di applicazione all'Arte; perfezionati da una dedizione così totale da non badare alla logica, al buon senso od alla salute. In altre parole, talenti totali. Vite totali per un'Arte totale. Sfide viventi al conformismo ed al buon senso borghesi, nel loro essere al di là della contingenza generica dei "valori" dominanti; e del resto, quando si attinge il sublime e l'Eterno appare a portata di mano, ogni concetto squisitamente morale scolora. Evapora semplicemente. Svanisce.

Al pari di Fischer, anche in Bucci il talento ebbe a manifestarsi precocemente; non sempre l'enfant prodige lascia spazio al genio, ma è altrettanto vero che quasi sempre quest'ultimo si esprime in forma esplosiva, immediata e non progressiva. E se il moccioso di Brooklyn a quindici anni era già campione USA ed otteneva la norma di Grande Maestro Internazionale, strapazzando sulla scacchiera giocatori fortissimi come Reshevsky o Byrne, Flavio Bucci a venti o poco più già recitava come protagonista con lo Stabile di Torino, e veniva notato da Vittorio Gassman. E se a ventidue anni l'americano era Campione del mondo, a trenta il Nostro aveva già dato la sua interpretazione finale, quella che ogni attore sogna - sovente invano - per l'intera carriera. Quella che ti consegna alla Storia. Quella di Ligabue.

Per entrambi, dopo sarebbe iniziato l'invitabile declino: quando hai raggiunto la vetta insuperabile all'età in cui gli altri, i normali esseri umani, appena si affacciano alla vita, cosa ancora può serbare il futuro? L'esistenza diventa un carcere, un lungo, tedioso reiterare - nel più fasto dei casi - il meglio del compiuto; una snervante attesa della fine, del passo decisivo per unirsi al corteo di Dioniso, negli altri.

E poiché gli altari abbandonati sono popolati da demòni, e il daimon bizzoso si accanisce spesso con maggior foga su coloro che più ha amato, il vuoto di un'esistenza ridotta alla realtà inferiore di distanza geografica dalla fine, poiché il Fine è ormai relegato alla regione del Passato, si riempie invariabilmente di scorie: alcool, droga, "donne" (il femminile ordinario, appannaggio del Genio della specie - come avevano intuito Schopenauer e Weininger - è quasi sempre precluso al talentuoso, la cui solitudine è al tempo stesso prerequisito e conseguenza del proprio status), depravazioni varie, diventano il corollario di vite la cui fiamma autentica è ormai già spenta.

Elementi accessori, insomma. Sbavature trascurabili che finiscono però, nel volgare Kali Yuga attuale, per intessere la ricca aneddotica destinata a sostanziare il ricordo dei Grandi, almeno sul breve periodo; odioso mix di livore da impotenti e di meschina propensione plebea a compiacersi delle altrui debolezze. Tempi barbarici, popolati da un'umanità così miserabile da non poter tollerare neppure l'immagine della Bellezza! Ecco perché ho scelto di evitare qualsiasi ricordo personale, in questo mio piccolo frammento, per ricordare Flavio: per non portare, neppure involontariamente, acqua al mulino della maldicenza, di certo da domani più attivo che mai nel compiere il suo squallido "lavoro".

Voglio però chiudere queste note con una considerazione forse non priva di interesse. Il corpo di Fischer muore a Rejkyavik, nella Thule estrema d'Occidente, reificando nei ghiacci d'Islanda il fuoco del suo gioco feroce, da gatto col topo, di torri, alfieri e pedoni; con la dignità di un Re senza Regina. Flavio Bucci, a suo modo esule in patria, scompare a poca distanza dalla proda di Enea, volgendo forse l'ultimo sguardo dei suoi occhi mortali verso Ovest, al mare dei Tirreni e, più oltre ancora, a quell'Avalon celeste del Teatro ove oggi si brinda al suo arrivo.

Piero Ferrarini


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