Un affollato spazio vuoto

(Lettera aperta ad un pubblico che non c'è)

Cari Spettatori,

permettete che mi rivolga a voi direttamente, senza preamboli né formalismi, così come si fa tra intimi. Il volgere degli eventi attuali impone purtroppo, almeno da questo punto di vista, l'accorciamento delle distanze; esige che si vada al sodo; richiede nervi saldissimi, certo, ma anche (e forse soprattutto) schiettezza e sincerità.

La portata della crisi che ci troviamo a fronteggiare non trova paragoni possibili nei tempi recenti. Essa investe infatti ogni ambito della vita associativa: dall'istruzione al mondo del lavoro, dai settori economici sino al senso della spiritualità, dalla grande politica ai semplici e quotidiani rapporti interpersonali. 

Non credo sia eccessivo preconizzare come questa epidemia preluda ad una ridefinizione complessiva dei valori che innervano una società europea ed italiana destinata ad uscire dall'emergenza profondamente trasformata fin nelle sue basi. Il nocciolo della questione è però il seguente: come sarà possibile governare tali mutamenti senza perdere il senso stesso della nostra individualità umana e culturale? Ci troviamo disarmati e quasi impotenti dinanzi ad un'insidia invisibile eppure pericolosissima.

E non mi riferisco al Coronavirus, bensì al nichilismo che rischia di avviluppare tutti noi, destinati come siamo agli arresti domiciliari sine die, e ad un'ancor più brusca "virtualizzazione" della vita... almeno per il momento, perché - come auspichiamo - le cose potrebbero in futuro volgere al positivo.

Mi trovo oggi ad osservare la realtà da una posizione paradossale, che neanche la mia fantasia di commediografo e autore avrebbe potuto immaginare per i personaggi che riempiono la scena. Sono direttore di un teatro vuoto: senza pubblico, senza attori, senza macchinisti, senza personale. Senza niente.

In compagnia dell'unica certezza di una chiusura imposta ex lege, giustificata ed opportuna (ma non per questo meno dolorosa), destinata a protrarsi per settimane e forse per mesi.

In compagnia di tutto ciò e di un pugno di compagni di avventura, tanto matti da essersi imbarcati insieme al sottoscritto sulla nave perigliosa - stultifera navis! - del Teatro, e così incoscienti da non scenderne neppure in un momento come questo! [Fossi un saggio indiano od un filosofo, mi verrebbe da chiedermi se sia più folle il folle stesso o i folli che lo seguono... Ma, appartenendo alla famiglia dei guitti, certe cose non riescono davvero a sorprendermi: pratichiamo un'Arte antica, ed ugualmente arcaicizzanti  sono i rapporti di fedeltà che ci legano gli uni agli altri].

In compagnia delle tante telefonate degli spettatori (il nostro pubblico) - autentica teriaca per il mio umore tendente al nero - che mi chiedono quando riapriremo la sala; quando si potrà tornare a teatro; quali spettacoli potranno essere recuperati (e quali, purtroppo, non lo saranno). Che mi domandano degli appuntamenti per i ragazzi di Fantateatro, del teatro brillante e di quello meno brillante... Voci senza volto danno consigli, che esprimono solidarietà, che avanzano proposte... Che mi fanno sentire - nel mio ruolo di uomo di spettacolo, e forse di cultura - meno inutile ed inservibile di quanto questo mondo globalizzato e senz'anima vorrebbe...

Ed ecco che un dubbio, subitaneo e folgorante come ogni intuizione dovrebbe essere, mi assale: forse questo castigo numinoso un suo recondito senso ce l'ha: quello di far brillare per assenza ciò che noi teatranti rappresentiamo, nel quadro di un sistema che - per dirla parafrasando un grande inattuale - parrebbe non volerci più. Destino bizzarro, ma forse non insolito per un'Arte che fu sacra, quello di riaffermarsi mediante la propria scomparsa.

Molti anni fa, osservando un'eclissi dalle scogliere normanne di Fécamp, intuii che quel formidabile  fenomeno astronomico altro non fosse che un grandioso e divino spettacolo messo in scena ed offerto al pubblico per esaltare, celandola, la maestosità del Sole. Oggi ravviso qualcosa di similare, negli accadimenti che sconvolgono l'Italia (terra dei tori) e l'Europa (guarda caso proprio da un toro rapita!): un simbolico ammonimento, lanciato dall'Olimpo e diretto agli abitanti del Vecchio Continente; una pressante esortazione a tornare a forme di socialità vera; a riscoprire le radici del presente, curandone la germinazione per il futuro.

Quando tutto questo sarà finito, ed il Coronavirus verrà confinato al novero dei brutti ricordi, forse guarderemo diversamente alle meraviglie dell'elettronica ed alle suggestioni di un mondo 2.0, desiderando ritrovare invece il piacere di stare insieme davvero (e non attraverso la mediata virtualità di un sistema informatico). Se così sarà, se questa disgraziata occorrenza servirà a rinsavire dalla hybris tecnologica, rimettendo al centro del reale l'Uomo ed i suoi bisogni autentici, dei quali il Teatro si fa espressione più autentica, allora si potrà affermare - ricorrendo alla popolare saggezza - che non tutti i mali vengono (solo) per nuocere. 

Sperando di poter presto tornare a servire Voi e il Teatro, vi abbraccio calorosamente.

Piero Ferrarini